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BARI, BENE LE VITTORIE MA LA LINEA GENERALE RESTA SEMPRE TUTTA DA RIVEDERE

di Pierpaolo Paterno

Tre indizi fanno una prova. Padova, Mantova, Cesena: chi ancora parla di coincidenze sta guardando un altro campionato. Il Bari ha scoperto che si può vincere anche giocando male, o non giocando affatto. E fin qui, qualcuno dirà, nulla di scandaloso: nello sport chi vince ha sempre ragione. Ma la domanda vera è un’altra, quella che da settimane rimbalza come un rimbombo fastidioso: questo Bari vince e convince? Spoiler: convince poco.

Il primo tempo contro il Cesena è stato un manifesto di timori, linea bassa, piedi che tremano e idee che non arrivano. Schiacciati, passivi, quasi intimoriti da una squadra che palleggiava con eleganza ma che, oltre alla fiammata di Shpendi disinnescata da un Cerofolini monumentale, ha prodotto zero sostanza. Qualcuno dirà: almeno ora non prendiamo imbarcate. Vero. Le distanze sono più corte, il reparto difende, si è smesso di farsi prendere a pallonate. Ma resistere non è giocare.

Poi arriva la ripresa. E per fortuna il calcio dura novanta minuti. Il Bari alza il baricentro, trova coraggio e soprattutto trova un’idea tanto semplice quanto evidente. Per segnare serve avere gente davanti. Moncini in solitudine sembrava un pellegrino nel deserto, poi entra Cerri, arriva Gytkjaer e la trama improvvisamente ha un senso. Basta una fiammata, una discesa di Dickmann, un velo intelligente e un’incornata da attaccante vero per portarsi a casa la partita. Cinismo? Sì. Bravura? Pure. Ma non basta a raccontare tutto.

Perché se nel calcio si esulta giustamente ai tre punti, nello stesso calcio c’è un concetto che non può sparire: identità. E oggi il Bari non ce l’ha ancora. Non l’ha mostrata contro Padova, non l’ha mostrata contro Mantova e non l’ha mostrata ieri. Difesa a tre obbligata, Dorval e Dickmann certezze, Cerofolini muro. Castrovilli? Se lo tieni largo, lo sprechi. Il centrocampo ha bisogno di un faro, qualcuno che accenda la luce e dica “giochiamo”. Darboe acerbo e sfortunato, Verreth utile ma non scintillante. Nel complesso emergono cuore, sacrificio, ma un’idea limpida ancora latita.

Il pubblico applaude, perché il pubblico vive di pancia. E ci sta. Ma noi non possiamo fermarci al risultato come se fosse l’unica cosa che conta. Perché se vinci giocando male o hai una fortuna che sfida le statistiche o stai nascondendo un potenziale enorme che ancora non riesci a liberare. In tutta onestà, pensiamo che la verità stia nel mezzo. Ci sono segnali positivi, sì. Ma il salto di qualità non si è visto, e continuiamo a rimandarlo alla prossima di venerdì contro lo Spezia. Con la speranza che sia quella giusta. Tre punti. Terza vittoria in casa. Meglio difendere che soffrire come prima, d’accordo. Però il Bari deve ancora dimostrare cosa vuole diventare. Perché una cosa è resistere e sfruttare l’episodio. Un’altra è comandare. E per ora, comandare lo fanno gli avversari. Il campionato vero, quello dei grandi, si costruisce così. Non solo con i risultati, ma con il coraggio di proporre. E di smettere di accontentarsi.

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